A scuola di inglese


L’esperienza di un nostro docente - Per due volte ho partecipato a uno scambio scolastico in qualità di accompagnatore e di organizzatore, una in Francia (Parigi) e una in Finlandia (Turku). Tutte e due le volte, accanto alle ansie e alle preoccupazioni per l’organizzazione del viaggio e delle attività, c’era

in me una notevole curiosità di vedere le scuole straniere e, soprattutto, i miei colleghi esteri al lavoro.

Avevo letto più volte della diversità di molte istituzioni scolastiche straniere rispetto a quelle italiane, sapevo che l’Unione Europea con la Strategia di Lisbona si era riproposta di fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliore posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” entro il 2010.

Sono tornato da questi viaggi pieno di ammirazione per la semplicità e, nel contempo, l’efficacia delle metodologie didattiche mette in atto nelle scuole che avevo visitato, molto diverse da quelle applicate in Italia. Tuttavia, l’esperienza era stata troppo breve, nel senso che le lezioni a cui avevo potuto assistere e le informazioni che ero riuscito a recuperare erano state limitate.

Così, quest’anno, ho provato a iscrivermi al progetto Comenius, sostenuto dalla Unione Europea per promuovere la formazione degli insegnanti. Sono stato ammesso a un corso di 12 giorni, a Cheltenham, UK, mirato proprio alla conoscenza del mondo scolastico inglese. All’interno del corso, era prevista la visita per due intere giornate a due diverse istituzioni scolastiche inglesi rapportabili ai nostri licei. Questa esperienza, ovviamente, mi ha permesso di ricavare una conoscenza molto più solida e approfondita delle metodologie didattiche di quel Paese, metodologie che ho trovato molto simili a quelle francesi e finlandesi, e molto diverse da quelle italiane. Proverò, quindi, a presentare il modo in cui si fa scuola in quei Paesi.

 

Sono tornato da Cheltenham di domenica e il giorno dopo, lunedì, mio figlio, che fa la terza media, doveva andare con la sua classe a visitare la mostra “Da Botticelli a Matisse”, alla Gran Guardia.

Subito ho pensato: “Che bello! Dovrebbero fare più esperienze come questa, nella sua Scuola!”

Ma, a una seconda riflessione, ho immaginato questa classe condotta nel percorso lungo la mostra, guidata da un quadro all’altro da un esperto che gli avrebbe spiegato dettagli, tecniche, correnti pittoriche, ed ho pensato che nelle scuole inglesi che avevo visitato durante il corso non avrebbero pensato neppure lontanamente a una visita di questo tipo. Ecco, questa è stata la mia prima reazione nel riprendere contatto con la scuola e con il mondo a cui sono ormai abituato.

Non è stata una reazione caratterizzata dal rigetto, ma dalla riflessione: non potevo sottrarmi al dovere di confrontare, dopo aver sperimentato e studiato una diversa metodologia didattica, forse addirittura diametralmente opposta alla nostra.

Da ciò che ho visto nella realtà scolastica inglese, posso ragionevolmente supporre che un’ipotetica classe portata a visitare una mostra non riceverebbe nessuna spiegazione, né visiterebbe l’intera mostra in un percorso cronologicamente coerente. Si fermerebbe, invece, davanti ad alcuni quadri e sicuramente svolgerebbe  un’attività, preparata dagli insegnanti; svolgerebbe un’attività, ripeto, non osserverebbe i quadri ascoltando la spiegazione. Questo non solo nella scuola primaria, ma anche in quella superiore.

Se devo provare a sintetizzare questa metodologia alternativa, direi che essa sostituisce il “what” con il “how”. Cioè richiede ai docenti di concentrare la loro attenzione e la loro attività didattica non sui contenuti, sul “che cosa” i ragazzi imparano, ma sul “come” lo imparano. Questo implica un forte ridimensionamento del ruolo del docente come fonte di conoscenza, come distributore di contenuti, per sostituirlo con quello di esperto organizzatore e costruttore di processiche portino gli studenti alla conoscenza in maniera autonoma (o quasi). Per spiegarmi meglio, la funzione dell’insegnante è di progettare e di costruire delle attività e degli esercizi che mettano in gioco le abilità degli studenti e che mirino a svilupparle. I contenuti, i testi, sono degli strumenti, non gli scopi.

Tutto questo, proposto in Italia, molto probabilmente genererebbe un vespaio di discussioni e di polemiche, per l’idea che di scuola e di insegnamento c’è da noi. Ritengo che qualche ragione ci sia anche, per difendere il nostro modello, che ha anche elementi di validità. Tuttavia non intendo entrare nel merito, ma solo sottolineare le differenze, in modo che ciò possa promuovere la discussione, di tipo dialettico e costruttivo.

Per questo, mi limito ad osservare che la metodologia inglese è sicuramente stata partorita, più che da docenti, da pedagogisti, anzi, più probabilmente, da psicologi. I libri di storia o di letteratura non presentano l’intera storia in maniera diacronica, ma hanno dimensioni minime e propongono  temi di tipo generale e moltissimi documenti. D’altro canto, l’insegnante li usa piuttosto poco, proponendo materiali selezionati personalmente (filmati, documenti sonori, lettere, dati, testi) in ordine all’obiettivo da raggiungere. Ad esempio, un modulo di Storia, articolato in tre o quattro lezioni (di cui ho assistito ad una), aveva come tema l’affondamento del Titanic; i materiali erano filmati (anche spezzoni del film), foto, articoli di giornale, tabelle con i prezzi delle varie classi, ripartizione delle cabine, distinta di tutte le merci imbarcate ecc. L’argomento serviva a capire:

  • Rapporti fra le classi sociali
  • Aspetti economici del periodo preso in considerazione
  • Relazioni politiche fra Regno Unito e USA

La comprensione è stata raggiunta dagli studenti sulla base dei materiali forniti, adoperando le proprie competenze, senza che l’insegnante fornisse spiegazioni, ma solo una guida quando era opportuno.

Certo, non è facile adattare alla realtà scolastica italiana una metodologia del genere, soprattutto se dobbiamo portare i nostri studenti all’Esame di Stato com’è oggi.

Tuttavia, ho provato a strutturare una mia lezione (che poi ho svolto in una mia classe) su questo modello, senza pretendere di applicarlo in toto, ma cercando di realizzare un compromesso con le nostre metodologie.

 

La lezione era la prima su Pascoli, il Simbolismo e il Decadentismo.

 

PRIMA FASE

La prima fase serve a motivare gli studenti, raccogliendo le idee su un certo argomento.

Anzitutto, ho chiesto agli studenti di esplicitare oralmente alcuni concetti del Positivismo (argomento già affrontato in Filosofia) che sembravano loro rilevanti; questo è servito per raccogliere le idee e per indirizzare l’attività.

Quindi, ho chiesto loro di scrivere sul quaderno, individualmente, tre modalità (di tipo lessicale, stilistico, tematico, personale) con cui, secondo loro, un poeta di fine Ottocento poteva aver reagito al clima culturale del proprio tempo. Qui gli studenti si muovono su un terreno nuovo, perché non ne sanno nulla, quindi è stato necessario indirizzarli e guidarli.  Tempo: 2-3 minuti.

Subito dopo, gli studenti, a gruppi di due o tre, devono mettere in comune quanto prodotto individualmente, discuterlo e ricavarne le tre modalità che al gruppo appaiono più rilevanti, escludendo le altre. Tempo: 4 minuti. (Questa fase implica capacità di rapportarsi con gli altri, capacità di mediare, capacità critiche).

Quindi i vari gruppi leggono i concetti individuati; i concetti vengono scritti alla lavagna, escludendo quelli che si ripetono. Ogni studente copia tale elenco sul proprio quaderno. Tempo: circa 10 minuti. (Naturalmente, in tal modo capitano nell’elenco anche idee non corrispondenti alla realtà, come “Il poeta scrive in modo oggettivo”, o “Il poeta analizza scientificamente la realtà”. L’insegnante non interviene e non fa notare l’infondatezza di tali ipotesi).

 

SECONDA FASE

Questa è la fase essenziale per la comprensione.

L’insegnante proietta o distribuisce in fotocopia tre brevi brani di poesie di Pascoli (La pioggia, Il compagno dei taglialegna, I gattici), li legge lentamente, quindi chiede agli studenti di individuare all’interno di tali poesie  i punti dell’elenco che è stato scritto alla lavagna. Naturalmente, solo alcuni punti potranno adattarsi alle poesie lette, mentre altri ne resteranno esclusi. A questo punto, l’insegnante guida la classe a capire perché quei punti si adattano ad esse, chiarendoli e contestualizzandoli  (ad es., “Il poeta usa un linguaggio di tipo tecnico e specifico”, o “Il poeta nella sua poesia ricerca una forma di evasione”. I concetti vanno chiariti e rapportati alla realtà del mondo poetico pascoliano). L’insegnante non chiarisce, invece, perché gli altri punti non si adattino alla poesia pascoliana, ma dà solo delle indicazioni sommarie, sufficienti, tuttavia, perché gli studenti possano eseguire la fase tre. Tempo: circa 35 minuti.

L’elenco copiato nei quaderni va conservato e verrà ampliato e completato, aggiungendo quei punti che gli studenti non hanno individuato, man mano che essi verranno riconosciuti nella lettura e nell’analisi delle successive poesie pascoliane. Lo stesso elenco servirà anche nel corso della lettura dei simbolisti francesi e di D’annunzio, in modo che emergano le analogie e le differenze fra di essi.

 

TERZA FASE

La terza fase è dedicata alla riflessione.

L’insegnante chiede agli studenti di rielaborare a casa quanto prodotto e discusso in classe, servendosi delle sommarie indicazioni date da lui stesso e della lettura di alcuni paragrafi del libro di testo che l’insegnante stesso segnala, in modo da spiegare in forma scritta  (anche  schematica)  i motivi per cui i punti dell’elenco rimasti esclusi non possono entrare a far parte del mondo poetico pascoliano.

 

Qui termina l’attività da me progettata; essa potrebbe facilmente essere proseguita e ampliata a proposito dello stresso poeta come di altri. Gli scopi di essa e le diversità rispetto alla consueta lezione frontale sono evidenti; tuttavia, ritengo anche che al momento una conversione a “U” nella scuola italiana sia prematura e inopportuna. D’altra parte, ignorare la direzione in cui sta andando l’istruzione negli altri paesi europei senza metterci in discussione e senza tentare qualche aggiustamento nel nostro percorso didattico mi sembra altrettanto sbagliato.

 

Vorrei aggiungere solo un paio di osservazioni relative alla scuola che sto tentando di descrivere:

  • Lo studente ha un carico di compiti da eseguire e di contenuti da studiare inferiore a quelli dello studente italiano
  • Tutte le scuole hanno il sabato libero
  • Sarebbe impensabile, in un tale sistema scolastico, svolgere le lezioni senza soluzione di continuità, con un solo intervallo di 15 minuti in cinque (o sei) ore. Normalmente, ci sono 15 minuti fra una lezione e l’altra e un’ora per il pranzo. Lo stesso ho riscontrato in Francia e in Finlandia. In Finlandia fra una lezione e l’altra ci sono 30 minuti, ma la lezione è di 75 minuti.
  • Le scuole sono visitate regolarmente da un team di supervisori che entrano in classe e assistono a tutte le lezioni per più giorni, relazionando poi al dirigente e segnalando le disfunzioni di tipo didattico (scarsa efficacia della metodologia).
  • Queste osservazioni possono sembrare poco congrue fra loro, ma mi sembra che tutte le modalità della didattica che ho illustrato siano accomunate dal criterio di porsi come primaria la centralità dello studente: tutto deve convergere nella sua efficace e qualificata formazione. Non ci sono “se” o “ma”, tutto diventa secondario all’efficacia dell’istruzione: se l’orario scolastico è poco didattico, va assolutamente ristrutturato in maniera più funzionale, se occorre una pausa fra una lezione e l’altra per migliorare le prestazioni, essa è sacrosanta, se occorrono aule diverse o attrezzature mirate al raggiungimento di determinati obiettivi… Ma vedo già spuntare sorrisetti ironici sul viso di chi sta leggendo: lo so, lo ammetto: questa è un’altra scuola, non la nostra.

 

 

 

Prof. Ruggero Gorgoglione

Pubblicato il 14-10-2015